
29 maggio 2025
Del mestiere dell’ornitologo ama la determinazione e la pazienza. “È una forma di osservazione che richiede rispetto, tranquillità e sguardo ai dettagli. Non soltanto visivi: anche l’ascolto e l’attenzione alle ombre e ai movimenti più impercettibili sono importanti per documentare la natura che ci circonda”.
Paolo Pedrini, da oltre 30 anni zoologo del Museo (prima Museo tridentino di scienza naturali e oggi MUSE), a giorni andrà in pensione. Un’intera vita, professionale ma non solo, dedicata alla conservazione e alla tutela della fauna selvatica. Anche in tempi in cui la sensibilità verso le altre specie non era così alta.
Per salutarlo, e ringraziarlo per tutti gli anni trascorsi assieme, gli abbiamo fatto qualche domanda. Scoprendo che il suo animale preferito non è un uccello, ma un insetto (pur sempre alato).
Continua…
Partiamo dagli inizi, da dove nasce la tua passione per la scienza? Dove è iniziato il tuo percorso di studi?
Dalla collina di Trento. Le campagne e i boschi dell’Argentario, dietro casa, sono stati i primi luoghi di osservazione. Dopo ragioneria, mi sono iscritto a Scienze Naturali all’Università di Pavia. Era il 1977. La tesi di laurea? Sui rapaci del Trentino, allora considerate le specie rare, studiate grazie ai primi monitoraggi sul campo. Prima in Val di Tovel, che non era ancora Parco. Poi in Val d’Adige con il gufo reale e in alta Val di Non seguendo le tracce di allocchi e altri rapaci dei boschi.
Al museo come sei arrivato?
Ero alla ricerca di dati storici, che all’epoca si trovavano esclusivamente nelle collezioni e nelle prime reportistiche del museo. Allora, ad esempio, non si sapeva ancora che la civetta nana fosse presente sulle Alpi, e il gufo reale era considerato estinto: invece, si trovava alle porte di Trento. Mi capitava spesso di girare per le discariche dei vari Comuni, perché ognuna aveva il suo gufo reale. Anche dell’aquila non si sapeva praticamente nulla. Al museo ho conosciuto Claudio Chemini e un giovane Bruno Maiolini. Con loro e altri naturalisti, tra il 1982 e il 1985, ho collaborato al censimento delle zone umide: un lavoro che ha posto le basi per l’istituzione dei biotopi del Trentino e, dopo varie vicissitudini politiche, della Rete Natura 2000.
Che monitoraggi avete avviato sul campo che prima non esistevano? Quali i traguardi di cui vai più orgoglioso?
Con il WWF, ho partecipato al monitoraggio della lontra scomparsa dopo l’alluvione del ‘66. Poi, dai primi anni ‘80 agli anni duemila, ho dedicato più di vent’anni allo studio e alla tutela dei rapaci diurni e notturni, tra cui l’aquila. Sono anche gli anni dei primi Atlanti, dedicati ad anfibi, rettili e uccelli. Docente di scienze fino al ‘94, sono entrato al Museo nel 1995 come conservatore per la didattica e, l’anno successivo, abbiamo istituito con l’allora direzione la sezione di zoologia dei vertebrati.
Gli “Incontri per parlare di fauna”, ideati più di 30 anni fa, sono una tua creazione. Come proseguiranno ora?
Sono nati da un gruppo informale di appassionate/i di natura. All’epoca avevo le chiavi del vecchio museo: ci ritrovavamo lì, ci confrontavamo e proiettavamo diapositive. Oggi speriamo che questo percorso continui a crescere, coinvolgendo sempre più persone. Si è formato un bel gruppo e tante occasioni di dialogo.
Stazioni di inanellamento, come sono nate? Quali sono i ricordi più belli?
Ho preso il patentino di inanellatore nel 1992, insieme all’amico Alessandro Micheli. Abbiamo iniziato a esplorare i valichi di montagna, scoprendo un mondo alato fatto non solo di specie stanziali, ma di uccelli migratori che attraversano le Alpi in primavera e in autunno.
Frequentando luoghi storici legati all’antica pratica dell’uccellagione, come Caset e Brocon, sono nate le prime stazioni di inanellamento scientifico, rese possibili anche grazie a un dialogo costante con le istituzioni locali. Da lì, insieme al Centro Nazionale di Inanellamento ISPRA, abbiamo ideato il Progetto Alpi, che monitora con 12 stazioni in tutto l’arco alpino. Il volo dei migratori è uno spettacolo unico: affrontano viaggi lunghissimi con una determinazione incredibile.
L’incontro più bello con un animale selvatico?
Una delle emozioni più grandi l’ho vissuta nel febbraio 1991, in Val d’Ambiez: la prima coppia “trentina” di gipeti stava volando sopra la mia testa. Adesso, grazie al progetto di reintroduzione, ci sono più di 60 coppie sulle Alpi. È stato un momento che mi ha fatto capire che qualcosa si può recuperare, che la natura, con impegno e visione, può essere restaurata.
Se fossi un animale, quale ti piacerebbe essere?
L’ape mi affascina: nella fase conclusiva della sua vita diventa bottinatrice e, forte dell’esperienza, vola avanti e indietro dall’alveare per raccogliere il nettare, orientandosi con sicurezza; si mette a disposizione per la sua comunità.
Cosa ti mancherà di più del museo?
Ora abbiamo una squadra strutturata, con nuove/i colleghe/i in zoologia e in molti altri ambiti della ricerca, della divulgazione e della formazione: qualcosa di impensabile solo pochi anni fa. A loro va il mio augurio, il lavoro è ben avviato. Il museo è un luogo aperto: spero di continuare a collaborare anche se in pensione, magari come volontario. Il Caset per me resterà una seconda casa.
Come ti immagini il MUSE tra 30 anni?
Come un organismo vivente, fatto di relazioni con molte realtà impegnate nella conservazione della natura e dell’ambiente. Un luogo di cultura e d’incontro non solo tra altri istituti scientifici, parchi e aree protette, ma anche con tutte le realtà che vivono questo nostro territorio. Il MUSE sarà un ente che studia sia l’aspetto più selvatico della natura, sia quello profondamente trasformato dai nostri luoghi di vita, come città, paesi e campagne. In questi anni abbiamo imparato che la natura è ovunque e che la vita si manifesta in molte forme, tutte da rispettare. In sostanza un museo, che prosegua e promuova la cura più ampia della vita, costruito su tante relazioni umane e il rispetto di ogni diversità.
Articolo di
Tommaso GasperottiRelazioni istituzionali e ufficio stampa
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