Dalla Tanzania al Trentino, passando per Firenze
Intervista al nuovo direttore della Ricerca del MUSE Francesco Rovero
Intervista al nuovo direttore della Ricerca del MUSE Francesco Rovero
21 novembre 2025
Con questa breve intervista diamo il benvenuto a Francesco Rovero, il nostro nuovo direttore dell’Ufficio Ricerca e Collezioni museali.
Insediatosi al museo nella prima settimana di novembre, Rovero è ecologo e zoologo di formazione e da oltre vent’anni conduce ricerche sulla biodiversità, in particolare sull’ecologia dei mammiferi e su come la loro presenza sia influenzata dalle attività umane e da altri fattori. Ha lavorato principalmente in aree tropicali, attivando negli anni collaborazioni anche in Amazzonia, Mongolia e, dal 2015, in contesti nazionali ed europei. È un esperto nell’uso delle foto-trappole, che impiega dal 2002, e grazie a queste nel 2008 ha scoperto una nuova specie di mammifero: il toporagno-elefante dalla testa grigia (Rhynchocyon udzungwensis), nelle foreste tropicali dei Monti Udzungwa in Tanzania, un vero hotspot di biodiversità rappresentato anche nella serra tropicale del museo. Fu uno dei risultati positivi di un progetto di ricerca che ebbe un forte impatto scientifico e mediatico, rafforzando il ruolo del MUSE nella conservazione della biodiversità a livello globale.
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Ci racconti la tua storia? Come sei approdato al Muse?
Ho un lungo passato professionale qui al museo, fin dai tempi del Museo Tridentino di Scienze Naturali, dove sono arrivato nel 2003 grazie a una collaborazione di ricerca con l’allora Sezione di zoologia dei vertebrati. Questa collaborazione si consolidò poi dal 2004 al 2007 attraverso un progetto di post-dottorato. Venivo direttamente dalla Tanzania, dove lavoravo da alcuni anni a un progetto di studio e conservazione della biodiversità che, insieme al collega Michele Menegon – già collaboratore del museo su questi temi – venne integrato nell’attività di ricerca del museo come nuovo programma. Programma che negli anni è cresciuto, approdando al MUSE e ispirando anche la serra tropicale.
Nel 2008 ho vinto il concorso come funzionario conservatore della neonata sezione di biodiversità tropicale, ruolo che ho ricoperto al MUSE fino al 2018, quando ho avuto l’opportunità di trasferirmi all’Università di Firenze. Dal 2019 vi ho svolto il ruolo di professore associato di ecologia presso il Dipartimento di Biologia.
Per un museo di scienze naturali essere anche un centro di ricerca è un valore aggiunto o una sfida?
Entrambe le cose: la ricerca è una funzione imprescindibile per un museo, ma essere un vero centro di ricerca – quindi un sistema strutturato e orientato a produrre ricerca di alto livello – è qualcosa di più, e rappresenta anche una sfida.
Ritengo che l’Ufficio Ricerca e Collezioni del museo abbia una dimensione adeguata, in termini di staff, risorse e potenzialità, per essere riconosciuto come un centro di ricerca coordinato e focalizzato su un insieme coerente di temi chiave: la biodiversità montana (in primis alpina), i cambiamenti climatici, la preistoria e la storia del paesaggio, e l’Antropocene come dimensione trasversale.
Senza dimenticare che la ricerca è parte integrante della missione del museo quale ente strumentale della Provincia, quindi rilevante per il territorio e anche sul piano gestionale. Il nostro potenziale nel strutturarci al meglio come centro di ricerca può costituire un’originalità rispetto, ad esempio, ai Dipartimenti universitari, dove per finalità didattiche convergono spesso settori scientifici anche molto diversi tra loro.
Cosa è irrinunciabile per fare ricerca in un museo di Scienze naturali?
Per prima cosa uno staff preparato, che nel nostro Ufficio non manca: abbiamo 30 dipendenti e numerosi collaboratrici/ori. Attualmente, per esempio, abbiamo 14 dottorande/i provenienti da varie Università che svolgono le loro ricerche con noi, spesso anche co-finanziati dal museo. Questo è importante perché un progetto di dottorato è in genere ben strutturato, pluriennale, innovativo e basato su solide collaborazioni con altri enti, accademici e non.
Poi servono ovviamente strumenti, anche finanziari. Un impegno importante, a mio avviso, riguarda le alleanze con altri centri di ricerca, come la Fondazione Mach (FEM), e la partecipazione alla progettazione europea.
Da ultimo, ma non per importanza, serve una strategia solida e condivisa del comparto ricerca.
Una sintetica configurazione della tua visione strategica da qui ai prossimi anni per la ricerca al museo?
Premetto che sono qui da due settimane e non ho la pretesa di avere già una ricetta o una visione perfettamente definita – sarebbe anche arrogante. Posso però esporre brevemente alcuni pensieri.
Conosco il museo, ma dopo tanti anni molte cose sono cambiate: la ricerca è dinamica, così come il mondo che studia. Condivido diversi elementi delineati dal direttore, per il quale uno dei pilastri della visione è proprio la ricerca, insieme all’internazionalizzazione e all’innovazione. Per noi questo è fondamentale.
Un museo senza ricerca è un museo senza identità e senza credibilità. Inoltre, occupiamo una “nicchia” – per usare un termine da ecologo – quella della biodiversità, della storia del paesaggio, dell’Antropocene: ambiti nei quali in Trentino si dedicano in pochi, e su alcuni temi specifici siamo rilevanti anche a livello nazionale.
Ciò non toglie l’importanza delle alleanze che abbiamo e che possiamo rafforzare, come quelle con FEM, l’Università di Trento, FBK, enti dell’Euregio e istituzioni nazionali. L’obiettivo è essere un vero centro di ricerca sui temi chiave che citavo: clima, biodiversità, paesaggio, Antropocene.
Ma il fattor comune di queste parole chiave è la natura alpina o si esce da questo territorio?
La ricerca ha certamente un forte focus sulla natura alpina, ma abbiamo anche progetti nazionali e internazionali.
Ho inevitabilmente un “bias” in questo senso, perché arrivo dal coordinamento di un grande progetto in Tanzania: un progetto internazionale in un’area ad altissima biodiversità, dove dal 2006 gestiamo un centro di ricerca con quasi 30 collaboratrici/ori locali.
Di recente abbiamo avviato progetti in Groenlandia e in Asia centrale; in passato abbiamo lavorato in Amazzonia e in altre parti del mondo. La natura alpina resta una parola chiave, ma credo sia sempre necessario integrare la nostra ricerca – ovunque essa si svolga – con il fattore umano.
Ecco perché l’Antropocene, tema trasversale, può darci maggiore riconoscibilità e rendere la nostra ricerca ancora più rilevante per la società.
Adele GerardiUfficio Comunicazione, MUSE |
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