Vai al contenuto

Storie di ricerca sul campo

Cedec e Gran Zebrù, due laboratori e cielo aperto

DSCN7225

Sono quasi le 17 e, a breve, una jeep passerà a prenderci per caricare il voluminoso e pesante materiale e portarci al Rifugio Pizzini, a 2700 metri di quota, alla base di ciò che resta del ghiacciaio di Cedec. Salirò con Mauro Gobbi, ricercatore del Muse e con il suo gruppo di giovani ricercatrici e ricercatori: Virginia Toscano Rivalta, Francesco Mensa e Giacomo Ambrosini che lavorano a un ambizioso progetto che punta a individuare le aree più sensibili soggette al ritiro dei ghiacciai e a studiare gli organismi in grado di colonizzare ciò che il ghiacciaio ha lasciato scoperto.

Con noi anche Adele Gerardi, giornalista del Muse e Marco Busacca, videomaker, che avranno il compito di girare alcune video interviste per raccontare più nel dettaglio i progetti PrioritICE e ColdCase per i quali il Muse è impegnato assieme all’Università degli Studi di Milano e altri partner.

Il Rifugio Pizzini è il classico rifugio d’alta montagna gestito da tempo immemore sempre dalla stessa famiglia. Claudio, il gestore, ci racconta di quando era bambino: il ghiacciaio arrivava a poche centinaia di metri dalla struttura (ora bisogna camminare quasi un’ora per sfiorare la sottile lingua della sua fronte); condivide con noi il ricordo di una vecchia bicicletta finita in un crepaccio alle porte del rifugio.

Non perdiamo tempo e, prima di cena, abbiamo giusto il tempo di visitare il sito di campionamento più vicino. “Ci troviamo su un terreno che non è più coperto da ghiaccio da almeno 10.000 anni” mi spiega Mauro “qui domina la tundra alpina, una prateria ben consolidata, un ambiente molto diverso da quello che possiamo osservare nelle vicinanze del ghiacciaio”.

09 YT Ghiacciai
*Accetta tutti i cookies per vedere il video. Clicca sull'icona nera per modificare le preferenze.

Camminiamo in mezzo a piante erbacee, muschi e licheni ed è proprio qui che, segnalati da alcune pietre con un bollino blu, troviamo quelle che mi spiegano essere le trappole utilizzate per monitorare gli invertebrati. Le chiamano pitfall traps e il loro funzionamento è molto semplice: si tratta di bicchierini contenenti una soluzione di aceto, sale e qualche goccia di sapone per i piatti. Geniali nella loro semplicità: l’aceto conserva, il sale evita il congelamento e il sapone rompe la tensione superficiale della soluzione facendo il modo che l’invertebrato che vi cade non rimanga sulla superficie.

Una dopo l’altra, le pietre vengono sollevate regalando l’emozione della scoperta. Insetti e aracnidi sono i principali invertebrati che vengono raccolti e minuziosamente annotati. Un piccolo sacrificio che permetterà di studiarli, identificarli e conservarli nelle collezioni del Muse a memoria storica per le generazioni future. Per ogni trappola viene anche prelevato un campione di suolo dalla cui analisi verranno ricavate informazioni riguardo l’acidità, la granulometria e la componente organica. Tutte informazioni che, prese ad intervalli di tempo regolari (ogni 15 giorni) daranno preziose indicazioni riguardo alla biodiversità di questa tipologia di ambiente.

Ma come varia questa biodiversità avvicinandosi al ghiacciaio? “Questo è quello che stiamo provando a indagare” mi spiega Virginia “Vogliamo comprendere quali sono i tempi di colonizzazione di un nuovo ambiente (in questo caso quello creatosi con il ritiro dei ghiacciai) e quali le specie di invertebrati che riescono a farlo”.

“Ci concentriamo su aracnidi e insetti” aggiunge Mauro “la loro ecologia è ben conosciuta e sappiamo che sono tra i primi organismi viventi a colonizzare queste aree”.

Con il finire della giornata sale anche l’emozione dell’attesa: domani ci avvicineremo al ghiacciaio e proveremo a cercare tracce di organismi viventi sulla sua superficie.
Gli zaini vengono preparati con tutti i materiali che serviranno poi sul campo: bicchieri acqua, alcool, aceto, vari contenitori e provette, rotella metrica, pinzette e lente d’ingrandimento; materiali che solitamente associamo alle mura dei canonici laboratori. Qui il laboratorio è immenso, maestoso e anche un po’ padrone di sé stesso; è proprio questo che fa brillare gli occhi a Mauro e alla sua squadra. È bello osservare il loro affiatamento e la capacità di fondere scherzosi momenti di spensieratezza al rigore scientifico che mostrano una volta arrivati ai siti di campionamento.

Ci incamminiamo lungo le morene, fotografie tangibili del passaggio del ghiacciaio. Le attraversiamo e le seguiamo con lo sguardo; corrono lungo il torrente, si incontrano mostrandoci quanto grande e maestoso doveva essere il ghiacciaio poche generazioni fa. Più ci avviciniamo alla fronte glaciale più il terreno sul quale camminiamo muta, la vegetazione è sempre più rada fino a che solo qualche sassifraga dal colore giallo intenso si fa strada tra le rocce nude e distese di limo e rivoli d’acqua.

Poco più sopra la roccia nuda, impilata disordinatamente, ci conduce alle prime placche di ghiaccio. Ecco ricomparire i bollini blu, segnale del passaggio della ricerca. Virginia e Giacomo si fermano qui, in questo ambiente di transizione, nelle immediate vicinanze del ghiacciaio. Avranno 48 trappole da controllare, 48 momenti di attesa e 48 momenti di gioia o delusione a seconda di quanto la pietra scoperta gli mostrerà. Mauro, Francesco e io indossiamo i ramponi e il caschetto e raggiungiamo la esile lingua di ghiaccio.

È incredibile, ma anche sulla superficie del ghiaccio vivono organismi incredibilmente adattati a questi ambienti estremi. Un’intera rete ecologica che potrebbe svanire con la scomparsa del ghiacciaio. “Ci concentriamo sui collemboli che sono l’anello centrale di questa rete” mi spiega Mauro mentre, concentrato, solleva frammenti di roccia e ne osserva attentamente la superficie a contatto con il ghiaccio. “Sono invertebrati gregari, imparentati con gli insetti, lunghi poco più di 1mm e li possiamo trovare nell’interfaccia freddo e umido che si crea tra il ghiaccio e la roccia. Si nutrono di alghe e batteri e a loro volta sono cibo per ragni e insetti notturni come i coleotteri carabidi”.

Se ci sono loro ci sono anche tutti gli altri! Ma loro, qui dove siamo sul ghiacciaio di Cedec non ci sono; l’ambiente è probabilmente troppo instabile, il caldo fa fondere il ghiaccio e l’acqua scorre sulla superficie del ghiacciaio portandosi dietro grandi quantità di detrito. Se fossi un collembolo non vorrei vivere con tutti questi repentini cambiamenti

Continua…

“Sui ghiacciai delle Alpi vivono due generi di collemboli: Desoria e Vertagopus” mi spiegano “A volte vengono erroneamente definiti – pulci dei ghiacciai– ma solo perché sono piccoli, neri e in grado di compiere grandi balzi. Alla base del loro addome è presente una struttura chiamata furcola che funge da “catapulta” e permette a questi piccolissimi animali di compiere incredibili salti”.

Ho la fortuna di vederli l’indomani, i collemboli, sulla superficie di un altro ghiacciaio, quello alla base del maestoso Gran Zebrù, massiccio dall’ inconfondibile profilo quasi Himalayano. Lo raggiungiamo inventandoci un sentiero nell’immensità di detriti glaciali. Il giorno precedente si era concluso con qualche frustrazione e preoccupazione dovuta al fatto che molte trappole erano state scovate dalle marmotte che, attirate dall’aceto (alcune graminacee di cui si nutrono contengono acido acetico), le avevano scoperchiate rendendo vani tutti gli sforzi fatti la volta precedente.

La visione dei collemboli, però, numerosissimi sulla superficie del ghiaccio, anima i volti e rincuora gli animi: subito, muniti di aspiratori e provette il gruppo si mette all’opera. Lo scopo è quello di aspirare un numero sufficiente di animali da permetterne un’identificazione non solo dal punto di vista morfologico, ma anche genetico. In questo modo si potrà essere certi della specie trovata o, come già accaduto in altri ghiacciai Alpini, descrivere una nuova specie.

Senza quasi accorgermene mi ritrovo anch’io a sollevare e a spostare pietre alla ricerca di un altro insetto: la Nebria castanea, un carabide che l’evoluzione ha condotto in questi ambienti estremi, sarà Giacomo a scorgerlo per primo. A quanto pare sono l’unica a non vedere nulla perché anche gli occhi esperti di Mauro, Virginia e Francesco individuano linifidi (piccoli ragni che sfruttano i fili da loro prodotti per farsi trasportare dal vento), opilioni e licosidi, più conosciuti come ragni lupo.

Ancora una volta mi rendo conto di quanto la determinazione crei esperienza e conoscenza e di quanto anche i più piccoli e criptici organismi siano una chiave fondamentale per valutare e dimostrare l’importanza di ecosistemi fragilissimi che molto probabilmente le generazioni future non potranno godere e osservare come abbiamo avuto la fortuna di fare noi in questi giorni.

La natura saprà adattarsi, saprà evolversi e trasformarsi. Ricercatrici e ricercatori come Mauro, Virginia, Francesco e Giacomo stanno mettendo tutto sé stessi per fornirci una chiave di lettura su come questo potrà accadere. È con questa consapevolezza che, carica di nuove esperienze e conoscenze, risalgo sulla jeep lasciandomi alle spalle spazi e silenzi che, anche se per poco, ci hanno fatto sentire tutta la loro spettacolare potenza.

Articolo di

Elisabetta Filosi
Mediazione culturale

Scopri le ultime novità

  • ✒️ Leggi gli articoli del blog
  • 📫 Iscriviti alla newsletter