Martedì 2 dicembre 2025
Quando si affronta il tema delle emozioni in contesti “non umani” non è mai facile scindere quello che è il nostro punto di vista per andare a indagare cosa provano le altre specie e perché si comportano in quel determinato modo.
Da un punto di vista adattativo le emozioni sono reazioni fisiologiche a uno stimolo esterno e hanno la funzione di preparare l’organismo a un comportamento tendenzialmente propedeutico alla sopravvivenza, soprattutto se parliamo delle “emozioni primitive”, ossia quelle emozioni che permettono di fuggire da un pericolo o di incuriosirsi a qualcosa di nuovo. Le emozioni possono essere osservate tramite lo studio delle espressioni, dei comportamenti o con l’analisi di alcuni parametri fisiologici.
Oggi, la maggior parte delle ricercatrici e dei ricercatori, non nega l’esistenza delle emozioni negli animali non umani. In particolare, è ormai noto che il modo in cui le emozioni si manifestano negli umani e nelle scimmie antropomorfe è molto simile. Nel corso del primo appuntamento dei Talk Biodiversi, il ciclo di incontri per esplorare da vicino la meraviglia e la complessità della biodiversità, ne abbiamo parlato con Virginia Pallante, primatologa e ricercatrice presso il Netherlands Institute for the study of crime and Law Enforcement (l’Istituto di Criminologia olandese) che da anni studia il comportamento dei primati.
Come si possono manifestare le emozioni nei primati?
“Le espressioni e la postura del corpo sono tra le prime manifestazioni delle emozioni; ad esempio, mostrare i denti e abbassarsi, come questa femmina (vedi immagine) di Theropithecus gelada, un parente dei babbuini, possono essere reazioni ad una minaccia. Anche i movimenti di singole parti del corpo possono darci indicazione, ad esempio, di nervosismo o stress. In questo caso, non è raro vedere gli animali grattarsi, toccarsi o abbracciarsi per auto calmarsi. Ovviamente, essendo i primati animali sociali, questi indicatori comportamentali servono anche a suggerire agli altri qual è il nostro stato emotivo, a riconoscerlo e ad empatizzare con chi lo sta provando”.
Il tema dei conflitti è strettamente legato a quello delle emozioni ed è altrettanto studiato. Inizialmente, i primi etologi si concentravano sulle prime fasi del conflitto, descrivendolo come un comportamento aggressivo istintivo, naturale e adattativo. In altre parole, si pensava che chi manifestava un comportamento aggressivo sarebbe riuscito ad aver maggior successo adattativo. Visione assai rischiosa perché rendeva leciti i conflitti giustificandone l’esistenza.
È davvero così?
“Prima degli anni 70, una situazione di pace veniva sempre vista come una situazione statica: un’assenza di conflitto che portava gli opponenti a distanziarsi. A quel tempo si studiavano i conflitti nei pesci o negli uccelli, in specie molto territoriali. Per fortuna, grazie ad etologi come Frans de Wall, ci si rese conto che le strategie che animali sociali come i primati mettono in atto per risolvere i conflitti sono altrettanto importanti e altrettanto frutto di selezione naturale. Pensiamo alla riconciliazione: essa può avvenire con baci, abbracci, carezze, grooming (l’atto dello spulciarsi a vicenda) e risulta essere vantaggiosa per tutti, sia per i due opponenti, tra i quali si è instaurato il conflitto, sia per tutti gli altri componenti del gruppo. È un po’ come quando rientriamo la sera dopo che qualcuno, al lavoro, se l’è presa con noi; se non ci siamo riconciliati, la frustrazione ci porterà, a nostra volta, a prendercela con chi ci sta aspettando a casa”.
Per anni molti studi si sono focalizzati su un approccio top down (dall’alto verso il basso). Si è partiti ad analizzare capacità cognitive complesse come la cultura, le abilità linguistiche, la capacità di pianificare a lungo termine (tutte caratteristiche intrinseche della nostra specie) per capire se fossero o meno presenti in altre specie. Questo approccio però non ha fatto che evidenziare e ampliare il divario tra l’essere umano e gli altri animali, ponendoci sempre su un piedistallo cognitivo difficilmente raggiungibile. “Chi è il più intelligente di tutti?” Homo sapiens, ovviamente!
I tuoi studi invertono questo paradigma. In che modo?
“Cercare capacità complesse come il linguaggio, la cultura o l’altruismo in altre specie partendo da una definizione nostra ci porta spesso a trovare l’assenza di queste caratteristiche. Se però noi definiamo queste caratteristiche sulla base di componenti più semplici, allora questo ci permette di andare a ricercare queste similitudini anche in altre specie. Ad esempio, si è visto che i Cercopitechi utilizzano vocalizzazioni diverse per predatori diversi riuscendo così a comunicare una cosa specifica anche a chi in quel momento non può vederla. Questo ci ha permesso di capire che c’è una componente semantica comune al nostro linguaggio”.
Cosa ci fa una primatologa in un istituto di criminologia?
“Quando lavoravo con primati analizzavo video e annotavo i loro comportamenti, oggi faccio la stessa cosa ma con primati umani. Analizzo video di telecamere a circuito chiuso in spazi pubblici laddove sono state segnalate risse, rapine o aggressioni. Partiamo da quello che sappiamo sui primati e andiamo a vedere se è così anche nell’uomo. Attraverso quanto studiato in etologia andiamo a vedere se anche gli esseri umani esprimono l’ansia attraverso determinati indicatori comportamentali o cosa fanno gli osservatori durante un conflitto. Abbiamo creato una sorta di catalogo che rappresentasse la variabilità dei comportamenti che indicano determinate emozioni espresse in situazioni post conflittuali per poi vedere come queste espressioni di ansia cambiassero in seguito all’intervento di un osservatore e, ovviamente, abbiamo cercato di capire se ci fossero analogie con questo osservato negli altri primati.”
E…?
“Certo che sì!”
Articolo di
Elisabetta FilosiUfficio programmi per il pubblicoMediazione culturale |
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