Dal 9 febbraio 2019 la
collezione permanente del museo si arricchisce con due ricostruzioni di
Australopitecine (un maschio e una femmina) collocate piano meno 1 del MUSE,
dedicato all’evoluzione e nascita della vita.
I modelli sono la copia esatta di quelli presenti
all’American Museum of Natural History di New York, realizzati sulla base delle
impronte scoperte nel sito di Laetoli, in Tanzania, nel 1978. Australopithecus
afarensis è una specie di nostri antenati vissuta in Africa più di 3 milioni di
anni fa. È la specie alla quale appartiene anche la famosa Lucy, lo scheletro
scoperto in Etiopia nel 1974.
Il ritrovamento, oggetto negli anni di diverse e talvolta
contraddittorie ricerche, ben si presta come esempio di teorie e interpretazioni
scientifiche oggetto di revisioni e implementazioni. Dalle impronte di Laetoli
si evince infatti che A. afarensis avesse una locomozione bipede e che,
all’interno della stessa specie, ci fosse un elevato dimorfismo sessuale,
ovvero una grossa differenza fra le dimensioni maschili, più grandi, e
femminili, più piccole.
La scoperta di altre impronte nello stesso sito, nel
2015, ha aperto nuovi orizzonti su alcune interpretazioni del nostro ominino.
Ad esempio, sembra che il dimorfismo, già noto, fosse di entità ben maggiore
rispetto a quanto identificato con gli studi degli anni ’70 e questo potrebbe
portare a una nuova interpretazione, non unanimemente condivisa dal mondo
scientifico, sul comportamento sessuale dell’antenato, ipotizzando che non
fosse monogamo (come la nostra specie), ma presentasse un maschio dominante
circondato da un harem di femmine, come gli attuali gorilla. Le due differenti
ipotesi hanno conseguenze diverse sulla nostra percezione circa la “modernità”
comportamentale di A. afarensis.
Questo è un bell’esempio di come la scienza – in questo
caso la paleoantropologia - sia in continua evoluzione. Per spiegare le differenti teorie, l’exhibit è corredato
da un interessante multimediale che contiene 5 interviste, realizzate ad
altrettanti studiosi, in cui si parla di recenti esempi di aggiornamenti
scientifici che hanno portato a sostanziali modifiche nel nostro modo di vedere
l’evoluzione dell’uomo.
Dopo un’introduzione sul concetto di non fissità della
scienza paleoantropologica tenuto da Telmo Pievani (Università di Padova),
Giorgio Manzi (Sapienza Università di Roma) ci spiega il ritrovamento delle
nuove impronte del 2015. Damiano Marchi (Università di Pisa) racconta la
straordinaria scoperta di Homo naledi - una specie di ominine sudafricana mai
conosciuta prima del 2013 che complica il già intricato cespuglio
dell’evoluzione umana - di cui ci parla in un altro contributo Jacopo
Moggi-Cecchi (Università di Firenze). Per finire, Albert Zink, direttore
dell’Istituto per le mummie dell’EURAC di Bolzano, spiega l’immenso contributo
dato allo studio del nostro lontano passato da Oetzi, la cosiddetta mummia del
Similaun che visse in territorio alpino più di 5 mila anni fa.